Brexit e fondi europei: cosa succederà?

07/07/2016

Brexit. Impossibile non affrontare la questione. Qualunque sia il giudizio politico sulla decisione presa attraverso il referendum che ha portato Cameron alle dimissioni, per chi si occupa di fondi europei è d’obbligo riflettere sulle conseguenze del leave.

In verità, l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea rappresenta un terremoto politico i cui effetti a lungo termine non sono minimamente prevedibili. Si va da un possibile nulla di fatto (o addirittura, come suggerisce il Financial Times, a un secondo referendum che sancisca la permanenza nella Ue) a un effetto domino che minerebbe l’esistenza stessa dell’Unione Europea. Sul breve-medio termine, diciamolo subito, per il mondo dei fondi europei cambia poco o nulla. L’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea sarà un processo molto complesso e abbastanza lungo (i trattati prevedono una procedura di due anni) e, soprattutto, dovrà essere ratificata da un parlamento il cui orientamento per il remain è senz’altro maggioritario. Le cronache ci dicono, peraltro, che la situazione politica interna britannica è estremamente fluida: dopo il grande sconfitto Cameron, si sono dimessi anche i due grandi vincitori del referendum, Johnson e Farage. A ciò si aggiungono i malumori e le voglie indipendentistiche della Scozia (massicciamente orientata verso il remain), il che contribuisce a rendere tutto più incerto. Nel frattempo, tra i 27 stati membri rimanenti alcuni premono per un’uscita rapida e per un taglio netto (così da rendere chiaro che non è possibile utilizzare l’esito del referendum per mercanteggiare le condizioni d’uscita e soprattutto che non è ammissibile pensare di poter mantenere i privilegi dell’Unione à senza accollarsene pienamente costi e responsabilità). Ma altri sembrano invece più propensi ad accordare uno status speciale alla Gran Bretagna.

Uno dei punti più delicati riguarda i finanziamenti alla ricerca. Il mondo accademico d’oltremanica si è speso fortemente per la permanenza in Europa e ha mostrato pubblicamente la sua preoccupazione per il venir meno dei finanziamenti comunitari alla ricerca. Dal punto di vista continentale l’uscita della Gran Bretagna da programmi come Horizon 2020 è al contempo un rischio e un’opportunità. A livello di budget comunitario, i britannici sono dei contributori netti (in pratica, come gli italiani o i tedeschi, contribuiscono ai fondi strutturali in misura maggiore di quanto vi attingono) e a partire dall’uscita ufficiale della Gran Bretagna l’ammontare complessivo dei fondi europei andrà probabilmente rivisto al ribasso, ma è presto per dire se vi saranno dei “tagli lineari” o se alcuni settori verranno tutelati. A livello di fondi per la ricerca scientifico-tecnologica, la Gran Bretagna tradizionalmente introita più risorse di quante ne mette a disposizione. Dato lo scenario attuale, è difficile che le imprese e le università britanniche possano continuare ad accedere ad Horizon 2020 sulla falsariga di ciò che fanno paesi extra-Ue come Norvegia o Svizzera. Proprio la Svizzera, dopo il referendum del 2014 che rifiutava gli accordi di Schengen, fu esclusa per ritorsione da Horizon 2020. Poiché uno dei punti chiave del Brexit è il rifiuto della libera circolazione delle persone, è facile prevedere che non vi saranno deroghe speciali per i britannici. In quest’ottica, per gli altri 27, ma soprattutto per l’Italia viene sì meno un partner all’avanguardia scientifico-tecnologica, ma anche un temibile concorrente nell’agone della finanza competitiva dei fondi europei a gestione diretta.

Nel 2014, su 2400 progetti approvati, quelli italiani sono solo 200, per un valore totale di 289 milioni di euro. Germania, Francia, Inghilterra e Spagna contribuiscono in proporzione meno all’Italia, hanno ottenuto fondi che vanno dai 300 agli 850 milioni. Un dato che deve fare riflettere in ogni caso. Che il Brexit diventi almeno l’occasione per riportare a casa risorse in un settore chiave per lo sviluppo del Paese.

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